Don Dante Caifa (1920-2003) – Biografia

Nominato Maestro di Cappella e Organista della Cattedrale di Cremona nel 1964, mons. Caifa è stato tra i fondatori della Scuola d’Organo e, dal 1994 (anno della sua costituzione), presidente dell’Associazione “M. A. Ingegneri”, di cui la Scuola è diretta emanazione.
Diplomato in Direzione di coro (1949) e Composizione (1951), insegnante di musica in Seminario, mons. Caifa ha rappresentato per oltre mezzo secolo il principale punto di riferimento della musica sacra cremonese. Dopo aver fondato il Coro Polifonico Cremonese, nel 1992 mons. Caifa ha ricostituito la Cappella Musicale della Cattedrale di cui è stato direttore sino al 1997.
Musicista raffinato e di raro talento, le sue musiche – prevalentemente dedicate alla pratica corale – sono state raccolte e pubblicate in occasione del 60° anniversario di ordinazione sacerdotale (1943-2003) nell’antologia:

DANTE CAIFA
Messe, mottetti e varie composizioni,
a cura di M. Ruggeri
[S.l. : s.n.], stampa 2003 (Cremona : Tip. Fantigrafica)
333 p. ; 33 cm

Don Dante era molto di più di poche, stringate ed essenziali note biografiche come emerge con vivida immediatezza nelle testimonianze di chi lo ha conosciuto (Album dei ricordi) nell’intenso, evocativo racconto-intervista di Elena Miglioli riportato qui sotto, tratto dal volume commemorativo per i 25 anni di attività della Scuola (maggiori notizie sul libro: QUI).

Don Dante Caifa, il Vangelo e lo spartito

di Elena Miglioli

Le note del Magnificat di Bach si schiudono come fiori lungo le navate del Duomo di Cremona, salgono tra le volte, alte, dirompenti. Hanno la forza di una primavera. Il direttore le accarezza nell’aria, le mani avvinte alla musica, le mani che a guardarle sembrano petali volteggianti. «L’anima mia magnifica il Signore». Lo sguardo rassicurante abbraccia i coristi a uno a uno. Trionfano le voci e gli strumenti dell’orchestra, ammutoliscono i cuori davanti a un velo di lacrime comparso negli occhi del maestro. «Ha disperso i superbi, ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili».
Don Dante Caifa si commuove sempre ascoltando il Magnificat, forse perché al di là della bellezza, nelle sue parole si rispecchia. Grandezza e umiltà. Al pari di lui, grande e umile servo di Dio e della musica. Raffinato direttore, compositore di talento, prete generoso, uomo dalla sensibilità profonda, intelligenza sopraffina. Burbero, umorale e riservato quanto basta per far risaltare poi quegli slanci di affettuosità inaspettati anche nella forma, accolti da chi lo ama come perle lucenti: un silenzio interrotto da un biglietto di ringraziamento recapitato nella buca della posta, un prezioso manoscritto donato a un amico musicista, un’attestazione di fiducia coronata da gesti concreti, magari con il conferimento di un incarico di responsabilità.
Classe 1920, Caifa entra in seminario dopo la licenza elementare. Cresce nella ‘nidiata’, come la chiama lui, dell’arciprete di Vescovato don Giovanni Gusberti. Arguto maestro, che insegna il latino, il vangelo e la vita tra una passeggiata e l’altra lungo il Guàder. Come si legge nel ritratto tenero e scanzonato dello stesso don Dante:

Era quello – per me – il tempo in cui la volpe astuta si chiamava in latino vulpes callida; e, se le volpi erano più d’una, allora si doveva dire vulpes callidae. Avevo segnato il passo, in Seminario; e durante le vacanze il signor Arciprete mi sottopose a passeggiate-studio per rinfrancarmi. Fu dunque presso il canale d’acqua fresca che viene da Grontardo (el Guàder) e presso lo stagno Bellària che imparai come e qualmente il lupo aveva torto marcio, e l’agnello, invece, ragioni da vendere; imparai che le cornacchie arrivano anche a mettersi le penne del pavone e, via via, le sottigliezze della grammatica latina […].

Qualche riga più in là, l’immagine del capannello di seminaristi con le orecchie tese e le menti pronte ad assorbire gli insegnamenti della loro guida:

Il gruppo dei seminaristi cresceva. Io ero il secondo, dopo il compianto don Franco Cottarelli che amava definirsi: il ceppo (la sòca). Don Bianchi ha già ricordato il metodo educativo di don Gusberti nei nostri riguardi: la passeggiata (dopo l’adunanza in Archivio) non era solo ripasso per qualcuno, ma scuola per tutti; scuola piacevole per chi porgeva attenzione; scuola di finezze. Per la popolazione di Vescovato era chiaro esempio della cura pastorale dell’Arciprete e un incitamento – se ce ne fosse stato bisogno – a volerci bene. Verso San Pietro i Vescovatini rivedevano volentieri i loro seminaristi e, al primo apparire della nidiata, (l’Arciprete era con noi) qualcuno sull’uscio o sotto i portici dava il segnale: Passa i pretìn; e altri occhi cercavano di riconoscerci.

Prete nel 1943, vicario della Cattedrale dall’anno successivo dopo una breve esperienza a Pieve d’Olmi. Studi al Liceo Musicale Pareggiato di Piacenza e al Conservatorio di Parma, dove consegue rispettivamente i diplomi di Musica Corale (1949) e Composizione (1951). Il prete musicista ottiene inoltre il compimento inferiore in Organo. E ai commissari d’esame che lo congedano dicendo «Ci rivedremo per il compimento medio» – scrive Arnaldo Bassini* – pare risponda: «Non ci penso nemmeno; per quel che devo fare io, prete, questo basta». Nominato maestro di cappella e organista della Cattedrale nel 1964 è tra i fondatori, nel 1986, della ‘Scuola d’Organo’ alla quale l’Associazione ‘M. A. Ingegneri’, istituita nel 1994 con Caifa presidente, assicurerà continuità. Per mezzo secolo don Dante domina la scena musicale cremonese. È del 1968 la nascita del Coro Polifonico Cremonese e del 1992 la ricostituzione della Cappella Musicale della Cattedrale, di cui è direttore fino al 1997.

In Cattedrale

Basso, tenore, contralto, soprano. Le voci ci sono tutte: giovani, fresche, plasmabili. Il brano polifonico viene imbastito attorno a un tavolo della canonica. È il regno dell’improvvisazione, in cui don Dante si avventura spesso e con risultati sorprendenti. La casa è la sua, quella di via Aporti. Gli ospiti, un manipolo di giovani parrocchiani catturati dal carisma e dall’estro del vicario, che quella sera decidono di farsi avanti con una proposta accettata di buon grado: «Vogliamo cantare». Nasce così, da un primo moto di amicizia e passione, il ‘Coro ‘68′. È un tenero bocciolo, ma costituisce già il nucleo originario del Polifonico. Carla Milanesi* racconta il tempo degli esordi:

Le prime prove le facemmo a casa di don Dante. Poi passammo alla sartoria del fratello Alfio, quindi a Palazzo Vescovile. Lui riusciva a rendere facile l’apprendimento. Era un amico di famiglia: organizzammo il pranzo per festeggiare la sua prima messa in casa mia. Il legame con noi era nato grazie ad Alfio, che da mio padre aveva imparato il mestiere.

Prima una brezza leggera, poi un vento sempre più impetuoso. Il nuovo gruppo vocale instaura una tradizione di concerti natalizi e pasquali che diventano appuntamento irrinunciabile per la città. Scrive Bassini:

L’attività musicale del Coro Polifonico si è andata nel tempo consolidando e intensificando: a coloro che lo invitavano, soprattutto ai parroci delle piccole chiese di campagna, a tutti don Dante diceva sì, lieto di portare la musica che tanto amava nei centri più piccoli. Con concerti che spesso si dividevano in due momenti distinti: quello ufficiale, con il repertorio sacro, in chiesa, e quello dei canti profani, popolari, sul sagrato. Pur senza far mancare le giuste gratificazioni al suo coro, che ha diretto in Notre Dâme a Parigi, in Santo Stefano a Vienna, in San Pietro a Roma e in altre importanti sedi.

Per Roberto Zanchi*, corista a partire dagli anni ’70, «il coro non finiva mai: anche tornando in auto dai concerti, si formavano gli equipaggi in base alle voci, in modo da poter cantare ancora». Le trasferte erano poi occasione di socialità per i coristi, legati da un rapporto di autentica amicizia. Racconta Silvana Cappellini*, che milita nel Polifonico dall’età di 16 anni, tra il 1976 e il 1988:

Eravamo molto uniti, proprio grazie a lui, alla sua attenzione verso ciascuno di noi. A volte mi chiedevo: ma come fa a ricordarsi di tutti? Non si arrabbiava mai, nemmeno quando si sbagliava, era sereno anche nel correggerci, poiché andava oltre il giudizio. Ricordo un episodio divertente, eravamo a Londra, in Westminster Abbey. Non c’era il traduttore, nessuno conosceva l’inglese: don Dante si mise a parlare in latino con il sacerdote.

Anche Giuliana Chiti* ha un ruolo da protagonista nell’avventura del Polifonico, non solo da corista. È instancabile braccio destro di don Dante nell’attività organizzativa. Ma soprattutto amica fedele, presenza assidua accanto al prete fino agli ultimi giorni:

Sapeva ascoltare tutti, si adattava agli interlocutori con i quali, di volta in volta, aveva a che fare: era bambino con i bambini, adulto con gli adulti e rispettava la libertà di tutti. Nella musica trasmetteva il suo senso religioso. Instaurava con cantori e allievi un rapporto personale.

A un certo punto don Dante decide di affiancare alle voci un complesso strumentale, che forma attingendo dalla schiera dei giovani liutai. È Giorgio Scolari* a sceglierli. «Quei primi stranieri – così li descrive Arnaldo Bassini – che negli anni Settanta approdavano alla Scuola di Cremona, vestiti e conciati in qualche modo e senza un soldo in tasca. Facendoli suonare, offriva loro un aiuto economico in maniera elegante». Tra gli orchestrali c’è anche Antonio De Lorenzi*, oggi valente violinista:

A 14 anni partecipai al mio primo concerto in Duomo. Era il 1979. Ne seguirono numerosi altri, fino al 1996. Iniziai a suonare nel 1974. Don Dante viveva in via Aporti, la parallela a quella dove abitavo io, via Palio dell’Oca, dove successivamente si trasferì. Più di una volta abbiamo suonato insieme in Cattedrale: lui all’organo, io al violino. Questi incontri privati e le occasioni pubbliche mi motivarono e mi avvicinarono ancora di più alla musica. Ebbi anche modo di conoscere le qualità di improvvisatore di don Dante, la sua duttilità innata. Un giorno, mentre ci trovavamo all’organo, entrò in Duomo una processione. Lui, tempestivamente e con grande naturalezza, grazie a un espediente armonico appropriato, collegò il brano che stava eseguendo al canto che si doveva intonare per la funzione da celebrarsi.

Un’altra giovane leva cresciuta nelle file del Polifonico e che fa della musica una professione è il soprano Ilaria Geroldi*. Al debutto, con i suoi 13 anni, è la mascotte del coro. Poi, grazie a quel primo trampolino, pone le basi di quella che si trasformerà in una luminosa carriera. E, tra i coristi, trova anche marito: Massimo Lattanzi.

Gli impegni erano numerosi, ma io ero appassionata. Don Dante mi spronava a studiare musica. È indelebile nella mia mente il momento preciso in cui capii che era una figura da seguire: fu quando preparammo lo Stabat Mater di Campori. Il suo modo di vivere la musica, quasi di identificarsi con essa, mi corrispondeva appieno. Pian piano mi avvicinò al ruolo di solista, affidandomi parti sempre più impegnative. Non scorderò mai l’emozione che provai eseguendo a San Pietro un salmo responsoriale che aveva scritto per me. Il giorno in cui mi diplomai al Conservatorio andai a casa sua con mia madre. Pensavamo di fargli una sorpresa. Invece la sorpresa me la fece lui: venne ad aprire la porta con un regalo fra le mani. Nel testamento mi lasciò l’Opera Omnia di Claudio Monteverdi. Gliel’avevo chiesta per scherzo una delle volte, numerose, che andavo da lui a fotocopiare qualche partitura. Mi prese in parola. Direi che, in generale, ciò che colpiva di don Dante era l’amore per il Bello. Le conversazioni con lui, che tra l’altro aveva un finissimo senso dell’umorismo, spaziavano dalla musica alla letteratura, finendo con l’etimologia delle parole dialettali.

Qualche corista, come l’organista Camillo Fiorentini* – che a tutt’oggi accompagna diverse celebrazioni in Duomo – e il direttore di coro Antonio Greco*, altro professionista cresciuto e influenzato da don Dante, esordiscono nelle atmosfere incantate delle voci bianche. Quest’ultimo, in quegli albori, conosce l’ebbrezza della polifonia:

All’età di 20 anni cominciai ad affiancarlo, al Polifonico, nella preparazione delle voci. Il Costanzo Porta è nato da una costola del suo coro: eravamo il gruppo giovane. Il suo modo di dirigere rispecchiava la sua personalità: asciuttezza e assenza ‘direttorica’. Mi colpiva anche nella gestione della vita del coro, che è in fondo una società, un microcosmo. Aveva un’ottima capacità comunicativa, riusciva a caratterizzare i passaggi più difficili di un brano magari grazie a un’immagine e così tutti si ricordavano e cantavano.

Alcuni talenti vengono scoperti tra i banchi di scuola, all’Istituto Magistrale dove Caifa insegna religione. Con uno stile sui generis. Perché quell’ora diventa spesso un salvifico spazio dove si addomesticano i compiti di latino («sa, vé ché che tè do na màan»: dài, vieni qui che ti dò una mano) e finiscono immancabilmente con una cantatina.
Nel contempo, il sacerdote continua a insegnare musica ai seminaristi che ben presto, in numero ridotto, non sono più in grado di garantire il servizio liturgico in Cattedrale. Ed ecco che il ‘Polifonico’ finisce per svolgere anche questo ruolo. Finché negli anni Novanta, in seno al gruppo vocale, si manifestano due diverse tendenze: chi intende perseguire mete artistiche ambiziose e chi invece privilegia l’aspetto aggregativo e liturgico, vedendo nel coro un’occasione per stringere amicizie e servire la Chiesa. È il 1992 e don Dante decide di seguire questi ultimi, rimanendo in tal modo fedele alla sua vocazione sacerdotale, che per tutta la sua esistenza non è mai disgiunta da quella musicale. Sceglie allora di ridare vita alla Cappella, chiamata ad accompagnare le celebrazioni presiedute dal Vescovo, e di reinserirsi nel solco di quell’istituzione resa celebre dal suo antico predecessore Marc’Antonio Ingegneri, nella seconda metà del XVI secolo. Il primo gennaio del 1994, in una lettera ai suoi cantori, sfodera il consueto ottimismo: «Io sono contento di quello che è successo, volendo guardare i lati positivi della vicenda – come piace a me di fare – direi: invece di un coro ce ne sono due. Tanto il posto c’è per tutti».
In quegli anni il Duomo di Cremona è inoltre il fulcro dell’attività organistica cremonese. Nel 1985, in occasione della costruzione del nuovo organo Mascioni, viene istituito il Comitato per l’organo della cattedrale di cui Caifa è membro insieme al cavalier Giovanni Arvedi*. Il legame di amicizia e di collaborazione, in occasione di tante iniziative culturali che seguono, comincia con una divertente disputa sulla scelta del nuovo organo. Ricorda Arvedi:

Don Dante desiderava un organo elettrico e portava l’esempio di Nôtre Dame. Secondo lui sarebbe stato più funzionale, data la posizione dell’esecutore di fronte e non alle spalle. Io invece insistei perché optassimo per uno strumento meccanico, che avrebbe privilegiato il vero ‘tocco’ organistico e dunque la libertà di interpretazione del musicista.

Arvedi ha la meglio. Il Comitato ha tre obiettivi: organizzare una rassegna internazionale, istituire corsi di perfezionamento per organisti e fondare la Scuola d’Organo. Quest’ultima amplierà poi la sua offerta formativa e si trasformerà in Scuola Diocesana di Musica Sacra. Giuseppina Perotti* ripercorre così le vicende legate al monumentale strumento della Cattedrale:

La ricostruzione dell’organo della cattedrale, iniziativa intensamente voluta dal cavalier Giovanni Arvedi, rappresentò una svolta nella dignità e nell’accompagnamento dei riti e don Dante non si risparmiò per ravvivare una tradizione antica, organisticamente d’ascendenza rinascimentale. Il Comitato per l’organo, nel quale don Dante occupava un posto di particolare prestigio, comprendeva fra i suoi compiti istituzionali l’organizzazione di concerti, seminari, corsi. E il livello, anche grazie ai suoi preziosi suggerimenti, fu subito alto come appare dimostrato da questi 25 anni di attività di cui la Scuola d’organo è cospicuo esempio. Perché alla Scuola d’organo egli dedicò tempo e fatica, occupandosi degli allievi come dei docenti, impegnandosi nell’organizzazione e anche, perché non ricordarlo, nella ricerca di una sede adatta. Era un uomo arguto, pronto alla battuta, metteva a proprio agio anche chi di organo e di musica ne sapeva meno di lui, accogliendo e meditando su ogni proposta senza ombra di pregiudizio.

Una nuova pagina nella storia musicale cremonese

Marc’Antonio Ingegneri, Claudio Monteverdi, Pierluigi da Palestrina, Ludovico da Viadana. Le polifonie limpide e lineari dei maestri antichi fanno capolino agli inizi degli anni Sessanta, rivoluzionando la scena cremonese, allora dominata dal gusto tardo-romantico. L’audacia di don Dante sorprende piacevolmente i più, ma non manca di generare scandalo. Eppure – grazie a un discreto e appassionato lavorìo che nulla impone, ma contagia e affascina – riesce a convincere e arriva a scrivere una nuova pagina nella storia musicale della città. Perché volgere lo sguardo all’antico? Di certo il monsignore percepisce un’affinità anche caratteriale con quelle melodie così semplici e terse. Inoltre, come suggerisce Antonio Greco, don Dante vuole recuperare quell’aspetto artigianale della musica che con il Romanticismo è andato perduto. Senza tralasciare l’identificazione con il ruolo storico di Maestro di Cappella. C’è poi il legame affettivo con il bussetano Giuseppe Verdi il cui celebre motto «torniamo all’antico e sarà un progresso», precisa Marco Ruggeri*, «ha anche delineato una sorta di programma d’azione – secondo una comprensione del ‘fare’ presente non come rottura, ma come continuità diretta dal passato – che a Caifa è sempre risultata particolarmente congeniale».
Sperimentando Monteverdi con il suo “Polifonico”, don Dante ha anche occasione di stringere un intenso legame di amicizia con Mario Bolognesi*, tenore di fama internazionale, che più volte si esibisce a Cremona. Sulle sue tracce arriva consigliato dallo storico Claudio Gallico, ai tempi il maggiore esperto del compositore cremonese. Bolognesi ricorda con nostalgia le serate trascorse a casa di don Dante, l’odore di sagrestia nelle stanze, i piatti di marubini fumanti. E le conversazioni irresistibili con il prete che serve in tavola nozioni storiche e citazioni letterarie insaporite da un’infornata di battute.

Quando venivo a Cremona per qualche concerto, don Dante mi ospitava sempre a casa sua e io accettavo più che volentieri. Ricordo che il soprabito appeso all’ingresso odorava di incenso. Mi piaceva chiacchierare con lui. Tante volte, quando avevo qualche preoccupazione, lui mi incoraggiava. E mi portava anche fortuna, perché in genere arrivava la telefonata di qualche teatro che mi chiamava per un ingaggio. La prima volta che lo vidi, mi aveva raggiunto insieme a Giuliana Chiti nella mia abitazione romana. Mi proposero di collaborare con loro per un concerto. Io rimasi abbagliato da quell’uomo, dalla sua intelligenza e dalla sua profonda cultura musicale. Ricordava per filo e per segno qualsiasi mottetto o madrigale di Monteverdi, conosceva ogni parola. Mi esibii in diversi concerti organizzati da don Dante, eseguendo anche musiche di Rossini e Mozart. Quando morì, persi un fratello maggiore.

Bisogna aggiungere che, a dispetto di una formazione piuttosto rigida in termini di canoni estetici, don Dante opera scelte interpretative decisamente moderne, che precorrono i tempi. Basti pensare alla speditezza nell’eseguire certi brani. La trasformazione del repertorio musicale investe anche le scelte organistiche con la riscoperta, ad esempio, di Bach.

Nato musicista

I suoi primi, claudicanti, approcci alla tastiera li descrive lui stesso, legandoli ancora una volta a don Gusberti, che passa allo scalpitante allievo i primi rudimenti di musica:

L’Arciprete racconta volentieri di avermi invitato e spinto ad occupare il mio tempo libero delle vacanze con l’armonium e di avere atteso per alcuni anni, senza troppe speranze, i frutti di tutto quel ‘pestare’ che facevo sul vecchio strumento, nei pomeriggi d’estate. Finché, diceva lui, una volta stando in archivio sentì che gli esercizi del Bungart (li conosceva bene anche lui) andavano, senza le solite fermate e inciampi d’altre volte. Venne a vedere. «Sét tè?» (sei tu?). Non capii il complimento; ma fui soddisfatto quando potei accompagnare i canti della Chiesa.

Molti anni più tardi, s’inventerà un’immagine buffa per rompere il ghiaccio con qualcuno dei suoi allievi alle prese con l’organo. Come funziona quello strumento? «L’è tame ’n càan: te tè ghe tiret la cua dè chi, e lü el baia de là!» (è come un cane: tu gli tiri la coda da una parte e lui abbaia dall’altra). E ai bambini principianti che gli chiederanno incuriositi perché non si possono usare i tasti neri, risponderà: «Quelli servono solo per i funerali».
Prima di conseguire i titoli di studio ufficiali, don Dante prende lezioni private da Gian Luigi Tonelli, musicista bresciano insegnante all’Istituto Magistrale di Cremona. Caifa è straordinariamente dotato. Don Giosué Regonesi* è allievo di don Dante in Seminario e insieme a lui in Duomo durante gli anni del vicariato.

Non ho mai conosciuto una persona con un talento di questo livello: intuito, immediatezza, memoria pronta. Era talmente istintivo che, a mio parere, viveva di rendita. Avrebbe potuto raggiungere traguardi ben più ambiziosi. Ma, come capita in genere ai più dotati, si accontentava di quanto l’istinto poteva offrire e non scavava, non andava oltre.

Compositore: brevità e originalità al servizio degli altri

Le qualità di compositore sono ampiamente indagate da Marco Ruggeri.  Un lavoro reso difficile anche dall’abitudine di don Dante di consegnare in modo del tutto spontaneo le partiture che scrive a chi gliele richiede, senza trattenerne nemmeno una copia. Si può dire che Caifa cuce addosso al coro o al cantante di turno la propria composizione. La musica sembra emergere a seconda delle esigenze dalla materia grezza, come una scultura. Un’arte messa a servizio degli altri, quasi che l’ispirazione arrivi soltanto mossa da uno slancio di generosità. In effetti, le dediche riportate su quelle pagine scritte il più delle volte con una rapidità estrema, magari in cucina mentre la perpetua prepara la cena, con il foglio in bilico sullo spigolo della tavola già apparecchiata, quelle dediche immettono in un mondo che pulsa. Le pagine si popolano di nomi e date, compagni di viaggio e circostanze che incorniciano un’intera esistenza dominata in lungo e in largo dal pentagramma, quella di don Dante e quella della comunità cremonese. Gratuità: un atteggiamento trasmesso a tanti giovani incamminati sulla strada della musica. Marco Ruggeri elogia il tratto stilistico di Caifa:

Senso della misura, sicurezza e vigore, attenzione alla Parola. Tutto è ‘come deve essere’, tutto scorre con naturalezza e autenticità, seppure nella semplicità. Tutto ha origine nella comprensione del testo sacro e nel suo pensiero musicale, che si esprimono poi attraverso una tecnica sicura e disinvolta. È una scrittura che sa anche osare e sorprendere: un improvviso cambio di ritmo, un accordo che non ti aspetti. Ciò che definirei personalità.

E Antonio De Lorenzi:

Emerge nella sua produzione un’essenzialità, una brevità che sono tipici della sua personalità. Nessuna ricerca di effetti facili. Riusciva a conferire espressività ai brani con un uso parco di mezzi. Inoltre, a differenza di ciò che succede in genere ai compositori minori, aveva una personalità tutta sua e una indiscussa originalità. Non mutuava dai grandi autori.

La produzione è prevalentemente incentrata sul genere corale. Fin dagli esordi, la sua opera «è sempre stata segnata da una costante solidità compositiva, un uso appropriato, disinvolto e talora geniale dell’armonia, un’innata attitudine al dialogo contrappuntistico e una linearità elegante e, al tempo stesso, incisiva della frase musicale». Compaiono, inoltre, armonizzazioni di spirituals e canti profani della tradizione cremonese, testimonianza dell’apertura di don Caifa a vari generi: ogni veicolo è prezioso affinché la musica raggiunga il cuore di chi ascolta. Scrive anche per l’amico Giorgio Scolari:

Negli ultimi momenti della sua vita gli chiesi alcune trascrizioni per il coro Paulli. Avrei voluto commissionargliene altre, ma poi si ammalò. Glielo dissi anche, con una battuta, che non lo avevo sfruttato a sufficienza. Le sue trovate armoniche erano geniali. Quando componeva per me poi mi diceva: «Vieni a prendere la partitura fra una settimana, te la lascio nel solito cassetto, in sagrestia».

Direttore senza bacchetta

Lo sguardo, l’espressione, il movimento. Un momento di commozione. Don Dante, la musica, ce l’ha addosso e la esprime con tutto se stesso: gli occhi, il volto, le azioni. Le parole. Don Dante è la musica. Lui non è un direttore comune. Secondo il racconto di don Gino Assensi* abbandona la bacchetta già negli anni Settanta: durante uno dei suoi primi concerti in Duomo la sfoggia, mettendola però da parte subito dopo i primi brani. È superflua. Gli basta quel gesto inconfondibile, con il quale sembra ipnotizzare i coristi, abbracciarli tutti e addomesticare le note. Commenta Antonio De Lorenzi:

Il suo gesto non era direttoriale, esprimeva invece libertà. Contrariamente alla regola, secondo la quale la mano destra scandisce il tempo e la sinistra conferisce espressività, lui usava entrambe le mani per quest’ultima causa. Disegnava l’andamento della frase e favoriva in questo modo la comprensione del brano.

Un gesto che non detta legge, ma che accoglie. Soprattutto, don Dante sa mettere a proprio agio chi gli sta di fronte. Come argomenta Ruggeri:

Mi ha sempre sorpreso la naturalezza del suo gesto. Tecnicamente preciso, ma soprattutto capace di rassicurare cantori e strumentisti, di far ‘respirare’. Un gesto paterno e un po’ all’antica, ‘alla Toscanini’, vero, senza fronzoli.

E don Assensi, nel rispolverare un concerto esemplare in cui Caifa pasce uno stuolo di voci in omaggio a Perosi:

Nell’ottobre del 1972 diresse diverse scholae cantorum della diocesi per commemorare il primo centenario della nascita di Lorenzo Perosi. Si eseguiva La cena del Signore. Quando si trattò di intonare il coro conclusivo Et hymno dicto exierunt in monte olivarum guardò prima i contralti (ai quali spetta intonare la fuga) e disse loro, naturalmente in dialetto: «Endom?» (andiamo?) e diede l’attacco. Li aveva rassicurati per affrontare un fugato indubbiamente complesso. Rimasi colpito dalla chiarezza e precisione con cui dava gli attacchi, dalle occhiate con cui li anticipava in modo che nessuna sezione di voci fosse colta di sorpresa; come dimenticare i ‘crescendo’ che seppe realizzare con centocinquanta cantori dalla preparazione diversificata e che avevano provato poche volte insieme?

Don Dante sa rendere semplici anche i passaggi più ostici, adottando un metodo di insegnamento che non ha nulla di accademico. In tanti sottolineano l’approccio insolito, rocambolesco di affrontare un nuovo pezzo. Per farlo assimilare ai coristi non parte dall’inizio, bensì dal punto in cui si raggiunge l’intensità maggiore per arrivare, poi, secondo un piano noto solo a lui, a tutto il resto. I risultati? Inimmaginabili. Con la partitura che per incanto si fissa nella mente dei coristi, anche di quelli con poche conoscenze musicali. Dicono che assicuri di riuscire a far cantare anche i sassi, che secondo lui nessuno è davvero stonato. Un miracolo d’uomo. Struggente la lettera pubblicata sul quotidiano La Provincia del 20 agosto 2003 e firmata ‘Una corista’:

La sua vita è stata un lungo silenzio, spezzato solo da battute brevi e fulminanti e dallo sgorgare impetuoso della musica. Quella sì era più forte del suo burbero quanto attento silenzio. […] Tirava fuori da ognuno risorse altrimenti sconosciute. […] Questo prete capace di trasformare la pausa di uno spartito in un vaso di gerani, perché tutti potessero ricordare che lì dovevano fermarsi.

Don Dante, il prete di tutti

In don Dante Caifa non si può scindere la figura del prete da quella del musicista. La vocazione è unica. Il sacerdote usa le note per parlare di Dio. E così lo testimonia anche a chi è impermeabile all’argomento. Senza troppi discorsi, come gli impone la sua indole. Non mancando però di porre l’accento opportuno sulle parole che esprimono i passaggi più drammatici e vividi di una Passione, di un Giudizio Finale o di una Natività.
Renato Rozzi*, parlando della musica quale terreno comune condiviso da lui e dall’amico prete, precisa:

Penso anche che proprio la musica gli abbia risolto i problemi del difficile ruolo di sacerdote, lasciandogli l’umiltà religiosa che era propria della sua personalità di non conquistatore: la musica ci aveva già conquistati, in essa eravamo già normalmente insieme. Ed essa ci lasciava liberi nella nostra implicita religiosità. Mi han detto che le sue brevi prediche durante la Messa erano non indottrinanti e che quando, nell’affollamento di Natale, era chiamato in aiuto per le confessioni, poi tornava a casa scosso e si metteva a letto, perdendo i magnifici tortelli di zucca ‘vescuadéen’.

Prete obbediente alla Chiesa, ma dagli orizzonti aperti che gli consentono di arrivare a chiunque grazie alla sua disponibilità. Franca Dall’Acqua* descrive l’amico don Dante, che tra l’altro è stato suo insegnante di religione alle Magistrali, come un ‘comunicatore’, un ‘uomo di piazza’, però colto e sofisticato:

Io che non sono credente ho fatto battezzare entrambi i miei figli da lui, in segno di amicizia e di grande stima nei suoi confronti. Quando frequentai le superiori erano anni di fermento culturale, sulla scorta della rivoluzione del ’68. Affermava: «Dove c’è cambiamento, c’è creatività e dove c’è creatività, c’è intelligenza». Tanti insegnanti aggredivano i ragazzi, lui invece era un osservatore rispettoso, comprensivo. Usava il sorriso. Nelle sue lezioni si concentrava sulla storia delle religioni come tentativo di ricerca e di comprensione da parte dell’uomo.

Da buon esteta, sapeva poi apprezzare e trasmettere la bellezza letteraria di certi passi della Bibbia. Don Giosué Regonesi accenna alle sue predicazioni dimesse, ma non prive di contenuti umani e teologici, così come alla vita parrocchiale vissuta secondo una pastorale antica, votata al servizio delle funzioni sacre. Caritatevole, insofferente alla mediocrità, anticonformista, autentico persino nelle manifestazioni di quel carattere tanto bizzarro.
Durante la sua vita fioriscono le amicizie con altri sacerdoti della diocesi, rapporti spesso influenzati ancora una volta dalla passione per la musica. Don Gino Assensi diventa corista del “Polifonico”. Don Luisito Bianchi* organista del Seminario. Quest’ultimo ha molto in comune con don Dante. Entrambi ‘vescovatini’, entrambi cresciuti sotto l’ala di don Gusberti, entrambi con una spiccata predisposizione artistica: l’uno scrittore, l’altro musicista.

Don Dante è entrato nella mia vita, mi circola di dentro, se trasmetto qualcosa trasmetto anche lui. Il mio non è un ricordo, è una ‘memoria’, oggi lui è ancora presente qui, come tutti coloro che lasciano un segno. Tutto ciò che faceva, lo faceva con gratuità.

C’è poi don Giuseppe Ferri*, che negli anni di sacerdozio a Cassano D’Adda dà vita e dirige un coro e un’orchestra. Entra in Seminario a Cremona nel 1964, don Dante è il suo insegnante di educazione musicale.

Conservo ancora il flauto in legno che usavamo alle scuole medie. Fu il primo strumento che don Dante mi insegnò a suonare. Poi, con lui, mi avvicinai all’organo. Adattava il suo metodo di insegnamento a ogni persona con cui aveva a che fare. Rimanevo incantato dalla manualità e dalla naturalezza con cui si metteva alla tastiera, magari mentre suonava raccontava una barzelletta.

Vangelo e spartito: Caifa ha una risorsa in più per testimoniare Dio. Eppure, leggendo il suo testamento spirituale, il prete-musicista sembra volersi scusare col Creatore per questa sua ambivalenza, che agli occhi di tutti è invece grandiosa, quando scrive in punta di penna:

Sono contento di essere prete. Il Signore si degni di accettarmi come sono stato e come sono. Anche ‘a mezzo servizio’. Avrei potuto essere di più e meglio… Ma Lui sa.

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A qualcuno parrà ancora oggi di veder spuntare, per uno scherzo della memoria, una tonaca svolazzante china sopra due ruote, laggiù, in fondo a un vicolo, dalle parti del Torrazzo. Quattro pedalate decise e una fermata per spendere due parole con i parrocchiani di passaggio. La bicicletta sfreccia per le strade del centro. Poi, con l’andar del tempo, rallenta il passo. La bicicletta, dicono, ha sempre saputo dove andare. Infila le strade dritta, sicura, nonostante il peso degli anni. Quasi che a portarla, a tenerla in equilibrio, non sia chi la conduce. Ma una melodia misteriosa. Fino all’ultima svolta. Dietro la Cattedrale, sopra una lapide si legge:

Don Dante Caifa
(1920-2003)
insegnò a capire ed amare
la grande musica.